Predicare bene e razzolare male ovvero il lato oscurato della psicoanalisi

“Predicare bene e razzolare male”: tutti conosciamo il significato di questa espressione. Lo si attribuisce all’atteggiamento di una persona che sembra giusta e onesta nel parlare, ma si comporta in modo ben diverso, mostrando un'evidente dissonanza “fra il dire e il fare”. Tutto questo è quello che meno ci si aspetta da uno psicoanalista. Ma quando questo succede, quando uno psicoanalista predica bene ma razzola male, può capitare che proprio lui oscuri, così come la psicoanalisi oscuri o “rimuova” questa enorme contraddizione.

In questa breve nota, a partire dalla mia esperienza nella clinica e nella formazione psicoanalitica, voglio provare a gettare una pietra nello stagno della psicoanalisi ed affrontare un tema che possa stimolare la riflessione di quanti (colleghi, allievi e pazienti), usufruiscono del lavoro di uno psicoanalista, prendendo spunto dai testi di Gabbard e Kernberg.

La psicoanalisi, oltre ad essere la teoria dell’inconscio della spiegazione della mente umana, è un metodo di cura avviato per primo da Sigmund Freud. Dalla sua nascita tale disciplina, per essere esercitata, ha richiesto che l’analista si sottoponesse lui stesso alla psicoanalisi personale affinché le sue parti più nascoste, di cui tutti siamo portatori, non potessero in alcun modo danneggiare le persone che vi si rivolgono, per curare la propria sofferenza psichica.

La storia della psicoanalisi è piena di episodi e di esempi di cattivo - se non addirittura di pessimo - utilizzo della tecnica clinica psicoanalitica. Fin dai suoi esordi ci sono state deviazioni dalla principale regola dell’astinenza predicata dal suo fondatore.

Le trasgressioni, o vere e proprie violazioni del setting, ben descritte da Glen Gabbard nel testo “Violazioni del setting” (Gabbard, 2017), sono così tante che spesso si fa fatica a credere che la psicoanalisi possa essere efficace nel suo scopo di lenire la sofferenza e il disagio psichico. Queste

trasgressioni e violazioni vengono quasi letteralmente rimosse, oscurate dagli psicoanalisti perché il rischio, come minimo, è di perdere essi stessi credibilità se non addirittura perdere il lavoro e venire additati come “mostri”.

Le trasgressioni e violazioni sono su due livelli: un livello formativo e un livello clinico.

Il livello formativo ha a che fare con gli Istituti di training psicoanalitico egregiamente analizzati da Otto Kernberg (uno dei massimi contributori della psicoanalisi dopo Freud) nel testo “Psicoanalisi e formazione. Cambiamenti e prospettive del training psicoanalitico” (Kernberg, 2018).

Il livello clinico di cui parla Gabbard, ha a che fare con le varie trasgressioni e violazioni in seduta operate dagli psicoanalisti, per lo più uomini, soprattutto di natura sessuale.

Livello formativo
Secondo Kernberg, (2018) una delle più importanti qualità dello psicoanalista deve essere quella di avere rispetto “per la natura potente sia dell’aggressività umana che delle forze libidiche e rispetto per l’inevitabile ambivalenza delle relazioni umane” (pag. 19).

Nella sua analisi degli Istituti di training, Kernberg sottolinea come spesso si crei una tendenza all’idealizzazione dei didatti da parte degli allievi. Complice di questa tendenza è soprattutto il fatto che nelle presentazioni dei casi clinici spesso siano chiamati i candidati e non i didatti stessi a fare la presentazione. I didatti non portano il loro lavoro clinico quotidiano alimentando così la fantasia onnipotente che essi siano avvolti da una misteriosa e sacra attività clinica. L’infantilizzazione dei candidati è dietro l’angolo e la capacità di sviluppare in loro la passione per la ricerca, per la clinica rischia di essere compromessa in modo irreparabile.

A questo spesso si accompagna l’incapacità, da parte dei didatti, di essere franchi ed onesti con i candidati circa i loro limiti durante il training e quindi alla difficoltà di saper porre dei no. Spesso c’è una certa “riluttanza da parte dei supervisori e a confrontare i candidati con i problemi del loro funzionamento o a affrontare in tempo utile l’incapacità di un candidato di trattare il materiale analitico”(pag. 142).

I supervisori spesso non esprimono le loro critiche ai candidati (critiche necessarie alla crescita e alla formazione professionale) rischiando così di creare un clima di approvazione ipocrita del lavoro svolto da candidati che hanno diversi tipi di difficoltà. Questo può creare all’interno dell’istituto delle differenze tra i didatti: da una parte quelli in grado di affrontare una critica nei confronti dei candidati e dall’altro altri didatti che non hanno il coraggio di esprimere il loro punto di vista che contrasti con quello degli allievi. In questo modo i docenti più esigenti possono essere “scartati” o evitati e vengono scelti quelli più indulgenti.

In molti istituti di training o Scuole di Specializzazione psicoanalitiche “la selezione e la scelta dei didatti, o dei docenti, delle co-conduzioni è stato spesso un processo segreto e per certi aspetti politico, destinato a proteggere e rafforzare il gruppo di potere già costituito” (pag 127). In questo modo ci si garantisce prestazioni professionali e si ha un vantaggio economico, assicurandosi così una fonte di pazienti. L’inevitabile conseguenza è quella di creare un'oligarchia che gradualmente si trasforma in gerontocrazia.

Nelle supervisioni individuali o in quelle di gruppo, le presentazioni dei casi clinici sono fatte solo dagli allievi o dai soci più giovani. I didatti non hanno mai, o quasi mai, presentato il loro lavoro analitico. Ciò può impedire agli allievi di familiarizzare con il reale lavoro clinico dei didatti, con il solo risultato di rinforzare l’idealizzazione del didatta stesso come presumibilmente perfetto.

Livello clinico
Il campo più grave dove “si predica bene e si razzola male”, anzi malissimo, è quello clinico: si tratta di violazioni gravi del setting analitico, di superamento dei confini del rapporto terapeuta e paziente. Ci sono analisti che, in barba a tutte le regole di astinenza previste da tutti i codici deontologici professionali, intrattengono rapporti di natura sessuale con i pazienti. La quasi totalità dei casi riguarda analisti uomini. Gabbard in “Violazioni del setting” (2017,) descrive egregiamente questo fenomeno: la psicoanalisi soffre enormemente del problema della violazione dei confini, come se il Super – Io fosse diventato più fluido e quindi venisse meno la sua funzione di voce della coscienza.

La storia della psicoanalisi è piena di esempi di questo tipo, fin da suoi esordi. Ma questo tema è perlopiù “oscurato”. Già Freud, in una lettera a Jung del 1911, scriveva che un articolo sul controtransfert (cioè la reazione emotiva del terapeuta verso il paziente) non avrebbe dovuto essere stampato, quindi reso pubblico, ma solo far circolare copie tra gli analisti. Ancora oggi, come sostiene Gabbard, le gravi violazioni dei confini non sono così facilmente riportate sui giornali e nei seminari pubblici tenuti dagli psicoanalisti.

Freud aveva molto chiaro in mente quale poteva essere il rischio del fenomeno della “china scivolosa”: si inizia con apparentemente innocue violazioni dei confini fino ad arrivare, gradualmente a vere e proprie trasgressioni dannose per il paziente. Egli riconobbe, in riferimento alla violazione dei confini sessuali che “esperienze del genere, sebbene dolorose, sono necessarie e difficilmente ci si può sottrarre ad esse. Quanto a me non ci sono mai cascato del tutto, ma alcune volte mi ci sono trovato assai vicini e me la sono cavata per miracolo” (McGuire, 1974, pag 230-231 Corrispondenza tra Freud e Jung). Un tale atteggiamento, tendenzialmente auto-assolutorio, oggi sarebbe mal tollerato. Ciononostante c’è una verità molto scomoda che non va taciuta: siamo tutti potenzialmente a rischio di trasgressione e di violazione dei confini, soprattutto quelli sessuali, con i nostri pazienti.

In molte organizzazioni psicoanalitiche, Istituti o Società, sono conservati “segreti di famiglia”, anche tra i membri più in vista e spesso gli armadi sono pieni di scheletri da tenere ben nascosti, “oscurati” appunto.

Spesso gli analisti tendono a minimizzare i danni creati al paziente dalla violazione dei confini sessuali, nonostante Freud, nel 1912, avesse ammonito che queste potrebbero da una parte costituire una sorta di trionfo per le pazienti ma in realtà sarebbero un vero e proprio fallimento totale della cura

Infatti, così come sostenuto da Gabbard (2017), i pazienti che sono stati vittima di rapporti sessuali con i loro terapeuti non si sentono feriti o traditi fino a quando la relazione non si interrompe. Allora, in quel momento, esplode la rabbia, intensa, ed a volte si assiste a reazioni che vanno dal suicidio alla denuncia.

Bibliografia
Freud S. (1912). “Dinamica della traslazione”. Tr.it. in Opere, vol.4 Boringhieri, Torino, 1984 Gabbard G., “Violazioni del setting”, Raffaello Cortina, 2017
Kernberg, O. “Psicoanalisi e formazione. Cambiamenti e prospettive del training psicoanalitico”, Franco Angeli (2018)

©Istituto Psicoanalitico Forbas 2019

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